Intervista a Dario Benedetti
INTRODUZIONE
Ciao e benvenuto al primo episodio di Dietro le corde.
Io sono Davide Celletti, chitarrista e insegnante di chitarra, e questa è la prima di una, spero, lunga serie di interviste che ho deciso di realizzare a chitarristi italiani più importanti e interessanti del panorama italiano. Queste interviste vogliono essere delle chiacchierate in cui andremo a conoscere meglio le loro carriere, ma soprattutto la loro visione della musica e dello strumento, in cui cercheremo di rubare dei segreti o dei consigli che possano aiutarci in maniera pratica a migliorare sullo strumento.
CHI È DARIO BENEDETTI
Ho pensato a lungo a quale chitarrista invitare per questo primo episodio e alla fine ho fatto una scelta di cuore: ho deciso di invitare Dario Benedetti. Dario è un chitarrista professionista con una lunga e interessantissima carriera alle spalle, ma soprattutto è il mio primo insegnante di chitarra. Mi ha cresciuto per diversi anni insegnandomi tantissimo e, soprattutto, trasmettendomi l'amore per la chitarra e per la musica.
La sua carriera inizia prestissimo, in maniera esplosiva: infatti, già a 18 anni riesce ad andare a Sanremo con il suo gruppo Dhamm.
Con i Dhamm, Dario vince Sanremo Giovani, e poi partecipa altre due volte a Sanremo nel '95 e nel '96, e un'altra volta ancora come arrangiatore e produttore. Nel corso della sua carriera collabora anche con grandi artisti come Eric Martin dei Mr. Big, Luca Barbarossa, Alex Hman dei Planet Punk, e partecipa a lunghi tour europei con Judit Berar. Nel frattempo si diploma anche in chitarra classica al conservatorio.
Quindi ti consiglio davvero di leggere l’intervista fino alla fine perché contiene tanto valore. Per continuare a ricevere articoli e lezioni gratuite, iscriviti alla newsletter gratuita!
Davide Celletti: Come hai cominciato a suonare la chitarra e soprattutto come è nato il vero amore per lo strumento?
Dario Benedetti: La mia è una storia un po' strana, che credo, ormai, per l'aspetto che ha preso il mercato musicale oggi, non possa più ripetersi. Io ho iniziato con una grandissima passione per la chitarra già quando avevo 13 anni. Stavo sempre con la chitarra in mano, con grande dispiacere di mio padre, ma non era una cosa che io avessi deciso. È che poi la chitarra decide per te, è così e basta. Tu ti alzi la mattina e in mente hai quello. Non è che ti organizzi la giornata. Prendi la chitarra in mano, dici: "Adesso suono 10 minuti", e ti ritrovi a guardare l'orologio che è ora di cena.
Ma qual è stata la prima scintilla vera e propria? Sicuramente gli anni ‘90 erano un periodo in cui il rock ancora andava molto di moda…
La prima scintilla furono i Dire Straits. Io adoravo Mark Knopfler, però poi rimasi molto deluso, perché volevo imitarlo. Comprai la prima chitarra perché io volevo suonare i Dire Straits, ma ho scoperto subito che suonare i Dire Straits richiedeva una maturità sia musicale sia tecnica che io non potevo avere a 13 anni. Quindi, una volta imbracciata la chitarra e capito che non potevo fare i Dire Straits, ho continuato ad amarli, ma ho fatto altro, perché non ero proprio in grado di affrontare quel modo di suonare così complicato.
E quindi ho cominciato con gli Iron Maiden, penso come tutti quelli della mia generazione, il riff di Paranoid dei Black Sabbath, queste cose qua. Poi, almeno 10 se non 15 anni dopo, ho detto: "Ah, forse adesso posso provare a fare quello che volevo fare da ragazzino", e ho cominciato a studiare Sultans of Swing.
Ma tra questi 15 anni c’è stata di mezzo l’esperienza di Sanremo! Se non sbaglio, con i Dhamm hai partecipato a Sanremo tre volte, ed eri giovanissimo.
Sì, tre volte più un'altra volta come autori, io e Alessio Ventura. Nel senso che andarono i Tibi Boulevard con Alessio alla voce, e io ero comunque autore e arrangiatore e coautore.
Raccontami dall’inizio come siete riusciti, così giovani, ad andare a Sanremo.
Inizialmente io volevo soltanto suonare la chitarra, era una passione che non riuscivo a controllare. Però non credevo di farne un lavoro. Addirittura mi ero iscritto a Giurisprudenza all'università. Invece, per la grande determinazione che aveva il bassista dei Dhamm, che invece era uno che aveva deciso che in qualche modo avrebbe dovuto calcare quel palco, ci demmo tantissimo da fare e ci riuscimmo. A un certo punto ci disse, a noi altri del gruppo: "Andiamo a Sanremo".
E lì mi è cambiata un po' la vita, perché i miei programmi erano altri, però nel momento in cui ti viene proposto di andare a Sanremo, di fare un disco…
A quei tempi fare un disco era molto più complicato. Oggi con il fatto che c'è il digitale, i computer, chiunque, se vuole, può fare un disco a casa, nella propria camera da letto. Negli anni '90 non era così. Ci voleva la casa discografica, ci voleva lo studio di registrazione, ci voleva qualcuno che investisse. Non esistevano i social. Quindi, se non c'era una casa discografica che decideva di fare la pubblicità televisiva o radiofonica, non avevi alcuna speranza. E tanto più se facevi rock.
Anche se il rock, adesso, è stato sdoganato. Magari chi ascolta questa nostra conversazione e appartiene alle nuove generazioni non ci vede niente di strano, no? Oggi ci stanno i Måneskin, ci stanno tante realtà rock… A quei tempi era impensabile che in Italia un gruppo rock riuscisse ad arrivare sul palco di Sanremo e ad avere un contratto con una casa discografica.
Quindi fu una grandissima fortuna. Io avevo 18 anni, e a 18 anni non hai neanche la maturità mentale per renderti conto di quello che sta succedendo. Io personalmente non l'ho saputa gestire più di tanto. Questa me la sono vissuta un po' come la gita scolastica, sai? Come quando stai a scuola e ti portano tutti in viaggio a Vienna, e lo scopo è spaccare la camera dell'albergo…
Certo, però rivedendo i video dell’epoca, si nota che già avevi una passione vera per la chitarra in sé e per sé!
Infatti è lì che volevo arrivare, nel senso che io sostanzialmente ero un chitarrista, volevo suonare la chitarra, e non mi chiedevo molto riguardo al genere musicale. Volevo suonare la chitarra. Qualsiasi opportunità mi fosse data di salire su un palco e suonare una chitarra, ero la persona più felice del mondo. E anche nei brani stessi, riascoltandoli oggi che sono passati 35 anni, sento proprio un ragazzino che non vedeva l'ora che partissero le quattro battute dell’assolo. Cioè, per me tutto il contorno era un'attesa che arrivasse il momento dell’assolo.
Poi, invece, il mio rapporto con la musica è cambiato totalmente. Adesso è paradossalmente il contrario. La musica al primo posto e la chitarra al secondo posto, anche se poi la chitarra è il mio modo per esprimere la musica.
È questo ragionamento che ti ha portato a intraprendere lo studio della chitarra classica e a diplomarti al Conservatorio?
Sì, ho cercato poi di allargare le vedute, perché a un certo punto i Dam sono diventati quasi una gabbia. Mi ricordo ancora quando venivo chiamato a registrare in studio con altri artisti, io ero comunque il chitarrista dei Dam, ero quello che veniva chiamato per fare il rocchettaro, per fare l'assolo virtuosistico, e ci rimanevo male quando invece c'era da fare, per esempio, delle parti di chitarra acustica che non prevedessero l'assolo, e il produttore di turno diceva: "Vabbè, qui chiamiamo un altro. Dario ci serve per fare l'assolo rock".
A un certo punto questa è diventata una gabbia, e l'aver abbracciato il percorso classico, il conservatorio, per me è stato un modo per uscire da questa gabbia. Cioè, per dimostrare prima di tutto a me stesso che il mio rapporto con la musica doveva essere totale, non relegato a delle scale di sestine…
Questo discorso mi fa venire tre domande:
1) In quel periodo, come hai fatto a sviluppare la tecnica più shred di cui mi parlavi?
2) Di quell'epoca e di quello stile, quali sono dei chitarristi che ad oggi reputi ancora interessanti?
3) La musica classica ti ha dato degli spunti da applicare sulla chitarra elettrica, o invece sono due mondi totalmente separati?
I chitarristi che per me sono stati fondamentali… In quegli anni — parlo della seconda metà degli anni '80, primi anni '90 — non è che ce ne fossero tanti. Cioè, c'erano, ma in Italia non ne arrivava voce. I più famosi erano ovviamente Jimmy Page dei Led Zeppelin, Ritchie Blackmore (ricordo che Made in Japan dei Deep Purple l'ho consumato)…
Poi arrivarono Van Halen, le prime cose di Steve Vai, che era incomprensibile. Mi ricordo quando comprai Flexible, il suo primo album, quasi sconosciuto, e rimasi sì colpito dalle grandissime capacità tecniche, ma tutto sommato era una musica che non capivo. Flexible è un album che potrebbe essere un album di Frank Zappa, tutto sommato.
E più in là arrivarono Paul Gilbert, che per me è stato un faro, soprattutto sul piano tecnico. Probabilmente, se all'epoca mi avessero detto che un giorno sarei salito sul palco con Eric Martin, che era il cantante dei Mr. Big, non ci avrei creduto.
Ricordo che passavo le giornate a esercitarmi.
Il mio primo esercizio, proprio partendo da quando ero un bambino, fu il riff di Paranoid dei Black Sabbath. Ricordo che, quando ero piccolo, siccome era l'unica cosa che sapevo fare, passavo le giornate a farlo, e già questo mi sciolse parecchio. Ma non conoscevo niente, non sapevo neanche cosa fosse la pentatonica. Era solo un modo per allenare la coordinazione del plettro e delle dita.
Poi ci fu Eruption di Van Halen. Mi fissai con dei piccoli segmenti e passavo le giornate a fare quei fraseggi
Poi arrivò Paul Gilbert con i suoi lick, e il rischio, come è successo, era che questi esercizi diventassero il mio linguaggio. Questa è una cosa che succede un po’ a tutti all'inizio, ed è una cosa terribile, su cui cerco di mettere in guardia gli allievi. Gli esercizi servono perché ci sciolgono le mani, sviluppano la coordinazione, ma poi suonare uno strumento non può ridursi a questo.
Vedo invece tantissimi chitarristi oggi che inseguono questa cosa. Voglio sottolineare, perché so che poi ci sono gli hater, quelli che aprono i dibattiti: il mio non è un discorso né contro lo shred né contro il virtuosismo in generale.
Ma amo sempre con gli allievi citare questa frase di Steve Vai, quando fece il primo seminario nel ’92. Venne a Roma, eravamo relativamente pochi a vederlo, perché ancora non aveva avuto il successo planetario che ha avuto dopo. E qualcuno — già esistevano gli hater, anche se non c'era ancora internet — alzò la mano e gli disse: “Eh, però questa cosa di suonare velocissimo e fare tutti questi prodigi tecnici non pensi che metta in secondo piano la musica?”
Steve rispose: “Se tu suoni in quel modo perché hai una memoria motoria di qualcosa che tu ripeti tutti i giorni, e in quel momento la stai ripetendo in maniera meccanica, allora stai facendo un torto alla musica. Ma se il tuo cervello pensa a quella velocità e suoni in quel modo perché in realtà stai pensando a quello che vuoi fare, e stai comunicando alle mani che in quel momento devono fare quella cosa, non stai ripetendo qualcosa che a casa hai passato pomeriggi a fare meccanicamente… A quel punto, la musica non è in secondo piano.”
E per dimostrare questo, prese un microfono e cominciò a suonare in modo shred, ma cantando all'unisono ogni nota che faceva. Quella per me fu una grande lezione. In quel momento capii che, nonostante io suonassi col metronomo a 220, le pennate, le legature, tutto quello che si poteva conoscere in quegli anni, in realtà stavo ripetendo a pappagallo qualcosa che avevo studiato in maniera meccanica e che non stavo realmente pensando in quel momento.
Cambiai proprio il mio modo di studiare lo strumento, cercando di fare non uno, ma dieci passi indietro e di dire: "Se il mio cervello pensa a 80 di metronomo, io suono a 80 di metronomo." Quindi fai un grosso passo indietro, ma per farne poi altrettanti avanti, perché cominci ad avere un rapporto con lo strumento completamente diverso, in cui decidi di fare una cosa e la fai.
A proposito di questo, consiglierei a tutti di vedere le Quarantine Lessons di John Mayer, che sono una serie di video che lui ha fatto durante il periodo della pandemia, e sono disponibili su YouTube. In questi video, lui fa ore e ore di lezione, ma senza mai farci vedere né un esercizio né un lick, semplicemente spiegando qual è il suo rapporto col fraseggio, cantando quello che vuole fare, facendolo sulla chitarra e facendo la differenza appunto tra il suonare in maniera meccanica qualcosa che hai sentito e sei abituato a fare, e invece essere presenti alla musica in quel momento.
Come si ricollega questo discorso sull’improvvisazione al tuo studio della chitarra classica? Quando penso al repertorio classico penso proprio a un genere che richiede di eseguire musica che è stata scritta nota per nota, articolazione per articolazione. TI ha comunque dato idee che sei riuscito ad applicare alla chitarra moderna?
Hai ragione, la tua considerazione è appropriata. Me lo chiedevo pure io. Dicevo: "Ma come fai a pensare che l'improvvisazione pura sia da perseguire a discapito dell'esecuzione meccanica, però poi passi le ore a suonare uno spartito in cui ti dicono tutto quello che devi fare?”
In effetti è un mondo completamente diverso, in cui l'improvvisazione non è assolutamente contemplata. Conosco chitarristi classici strepitosi che non saprebbero improvvisare neanche il blues più semplice. Quindi sono due mondi diversi; quasi li considero due strumenti diversi, come se parlassimo della chitarra e della batteria.
Però il grande insegnamento che forse, senza aver fatto il percorso classico non avrei mai avuto, è stato quello del come suonare un brano.
Ricordo quando cominciai ad andare a lezione di chitarra classica. Già per conto mio facevo, che so, "For the Love of God" di Steve Vai, o "Eruption" di Van Halen. Quindi da ragazzo pensavo: "Vabbè, che ci vuole? Adesso mi imparo a memoria questo spartito, vado a lezione, il maestro rimarrà a bocca aperta, no?"
E invece andai lì, le note erano quelle, io suonavo quello che era scritto sullo spartito, ma il maestro mi disse: "Sì, ma mi stai annoiando".
Suonare un brano non significa eseguire le note del brano, anche fatte a tempo, ma significa interpretarlo. E io questa cosa non la capivo, o se la capivo, gli davo un significato romantico, tipo: "Vabbè, mi metto a lume di candela, suono un po' più piano e magari sto interpretando". Invece la musica classica ti pone di fronte a un muro. A volte tu un brano lo studi anche per due anni, lo stesso brano, e magari il secondo giorno già lo sai suonare tutto, dalla prima all'ultima nota. Ma ci vogliono due anni per suonarlo come va suonato, con la dinamica giusta, con una tecnica di accelerazioni, di rubati…
Quindi nella musica classica la creatività sta più nell'interpretazione?
Esatto! E questo poi mi ha fatto riconsiderare il modo di suonare anche la chitarra elettrica. Perché ovviamente, se tu suoni con la distorsione a manetta e fai le scale col metronomo a palla, non dai nessuna importanza al colore di ogni singola nota, e non dai neanche tanta importanza alla dinamica. E comunque sullo strumento elettrico sei sempre coperto, in qualche modo, dalla band: c'è la batteria, c'è il basso. È un approccio completamente diverso.
Per esempio, presa una semplice frase pentatonica, il fatto stesso di sunonare qualche nota più forte o più piano, secondo me, è paragonabile al linguaggio parlato. Quando noi parliamo, non è che scandiamo tutte le parole in maniera identica: è normale che una persona abbia delle inflessioni che sono anche emotive: se sono felice, parlo in un certo modo, se sono triste, parlo in un altro modo. E questo deve riflettersi nel modo di suonare. Così anche la più semplice delle cose diventa bellissima.
Spesso mi capita con gli allievi che mi dicono: "Mi fai fare quella fraseggio di Gilmour?"
Glielo fai vedere e rimangono delusi: "Ah, tutto qua? Due note su una pentatonica?"
Prova a farle come le fa Gilmour! Proprio ieri vedevo la registrazione di un suo concerto a Roma... ero ammaliato proprio da questo modo di suonare così semplice, così essenziale. Mi immaginavo schiere di ragazzini che lo guardavano, dicendo: "Ma perché questo qua è così famoso? Ci potrei stare io su quel palco a fare le mie sestine a 210 di metronomo!" Eppure è un uomo che ha fatto la storia, facendo due note sulla pentatonica. Ma come le ha fatte! Lo so, sembra quasi retorica questa cosa…
No, no. Secondo me non è retorica. E qui mi ricollego: uno degli insegnamenti più grandi che mi hai dato tu, non so se lo sai, è stato quello che ogni volta che mi facevi studiare un pezzo mi obbligavi a diventare, per quel pezzo, la copia, il clone, del chitarrista che stavamo studiando. Dovevo copiare il modo in cui faceva quel determinato bending, il modo in cui pizzicava quella corda, imitando anche le più piccole impressioni del tocco e del rumore. E questo io cerco di farlo fare a tutti anche i miei studenti, perché ho sperimentato su me stesso che così veramente migliori. Dopo che sei diventato la copia di 10, 20, 30, 100, 200 chitarristi, poi il tuo stile personale emerge, ma ti sei basato sulle conquiste dei grandi della storia. Quindi il discorso non è banale. Se uno vede Gilmour e studia Gilmour, ci si mette là ore e ore, non a fare esercizi veloci, ma a cercare di capire come quella nota è stata toccata, come quel micro-bending è stato eseguito, migliorerà tantissimo.
Ma il rischio di questo ragionamento è che tante volte può diventare la scusa per non studiare: "Tanto basta fare due note come Gilmour, e va bene lo stesso." Concordi con questa visione?
No, no, hai colto nel segno e sono contento che ti ricordi questo approccio. È una cosa importantissima. Come ho detto prima, lo shred va studiato. Questa impostazione romantica, per cui le poche note fatte col cuore sono bellissime, non deve diventare un alibi per non studiare la tecnica. Prima di tutto, lo sai, io sono uno che, per quanto odi lo sweep, il tapping, e tutte queste cose, e non le userei mai nella mia musica, le ho studiate e le faccio studiare.
Tanto è vero che io ho studiato solo con te e sono diventato un chitarrista più orientato al tapping e alle tecniche ultra-moderne… Ma tu hai avuto l'intelligenza di capire i miei gusti e le mi predisposizioni e di non farmi abbandonare quella strada, anche se non era il tuo genere. E questo ti fa onore come insegnante.
Ti ringrazio, lo considero un complimento e spesso, ancora oggi, mi trovo a discutere, perché non tutti hanno questa tua intelligenza. Spesso, per esempio, faccio studiare un pezzo di Hendrix e mi dicono: “Questo lick non si fa così, io ho visto quel video su YouTube e lui prende quella nota al 13º tasto", eccetera, eccetera.
Io cerco di spiegargli che Hendrix era istinto puro, come Stevie Ray Vaughan. No, non si può approcciare a quelle cose pensando che bisogna eseguire alla lettera quello che ti dice il tizio su YouTube, che in quel momento c'è quel bending o che quella nota va presa esattamente su quel tasto... No, tu devi entrare in un mondo e suonarlo a modo tuo.
Penso che neanche Stevie Ray Vaughan, se fosse vivo, sarebbe capace di eseguire una cosa esattamente come la noi la ascoltiamo sui suoi dischi, perché era tutto basato su un approccio particolare allo strumento. Poi, ovviamente, esistono anche generi musicali che richiedono altro, perché se per esempio io voglio suonare i Dream Theater, devo per forza studiare alla lettera qualsiasi cosa, perché magari ci sono dei tempi dispari, e se quel bending non arriva sul terzo colpo di tom della batteria, il pezzo è rovinato... Ma è un altro approccio, che personalmente non mi ha mai appassionato, ma che rispetto.
Quindi per unire questi discorsi sull'improvvisazione e la didattica, se dovessi indicare dei consigli o degli esercizi per lavorare sull'improvvisazione quali sarebbero?
Avere più cura per l'armonia e per l'accompagnamento. Non pensare che la chitarra si riduca a quelle quattro battute di assolo, che devono per forza arrivare a un certo punto. E soprattutto, forse dico qualcosa di scontato che sentiamo ripetere in molti video didattici: pensare alle note target.
Cioè, è ovvio che se io suono senza pensare alle note target, gli accordi sottostanti tutto sommato non contano niente. Perché se io suono velocemente, l'orecchio non ha mai il tempo di sentire dove mi appoggio. Quindi in quel caso va tutto bene…
Spesso mi è capitato di studiare fraseggi di questo tipo. Mi ricordo quando uscì Guthrie Govan: una tecnica pazzesca, mi andavo a studiare i suoi lick iper veloci, con tantissime note "out", e poi però mi rendevo conto che se non suoni a quella velocità, non funzionano.
Cioè, se io studio, non so, un solo di Mark Knopfler, ci sono delle frasi che sono bellissime anche se non le suoni alla sua velocità. E probabilmente posso dire lo stesso anche di Gilbert, tanto per parlare di uno shredder. Cioè, c'è un linguaggio dietro che va al di là della velocità, c'è una scelta di note che è sempre appropriata.
Ecco, forse l'esempio più calzante è Joe Bonamassa, che è un chitarrista con una tecnica impressionante, una velocità impressionante. Ma se tu suoni le sue frasi anche a un quarto della velocità con cui le esegue lui, stai comunque facendo una cosa bellissima. Mentre invece se prendo un fraseggio di Guthrie Govan, funziona perché è un suono generale. Cioè, è eseguito a una velocità tale in cui le note, le singole note, non hanno più molto senso, ma sono parte, come fossero degli atomi, di un insieme che poi dà il suo effetto. Per carità, musicista di gran livello, eh!
Tranquillo, ho capito il discorso…
E quindi il consiglio che do a tutti è lavorare sugli accordi.Quando suoniamo da soli, anche senza una backing track, cerchiamo di far sentire noi l'armonia.
Faccio un esempio: se io ho una backing track che mi fa il solito I-IV-V, posso anche suonare la stessa pentatonica minore in continuazione, e sembra che va tutto bene perché c'è sotto una backing track che mi cambia gli accordi. Però poi, se andiamo a vedere quello che ho fatto, sto sempre lì. Cioè, non ho espresso niente!
Invece, una cosa utilissima è non prendere la backing track e cercare di far sentire noi gli accordi che cambiano attraverso quello che facciamo, cercando di andare a prendere le note chiave dell’accordo, soprattutto le terze.
Chiaro. Potresti andare più in profondità in questo discorso? Te lo chiedo perché, appunto, ormai tutti sono arrivati a consigliare di seguire le note target. Però insegnare come fare a chi sta a un livello un pochino più basso sullo strumento è difficile. Faccio il mio esempio: nel mio percorso, mi sono ritrovato a studiare composizione alla Saint Louis, e a studiare tutta una serie di materie molto teoriche come contrappunto, armonia. E così capisci come funziona una melodia rispetto agli accordi, riesci a pensare alle note target pensando alla nota rispetto all'accordo, ecc... Ma mi rendo conto che questo non è un tipo di studio che possono fare tutti, ma semplicemente per una questione di tempo.
E quindi tu come cerchi di far entrare uno studente in questo mondo, per farlo approcciare all’improvvisazione consapevole, al seguire le note target, senza dirgli: "Guarda, devi imparare tutte le note e come sono fatti tutti gli accordi", per non scoraggiarlo?
Hai perfettamente ragione. E ovviamente tutti i discorsi che noi facciamo dipendono poi da qual è lo scopo di ciascuno. Non si può pensare che qualsiasi allievo voglia fare il chitarrista da professionista, no? Diciamo che l’improvvisazione consapevole è un obiettivo che si potrebbe raggiungere in parte tramite la musicalità istintiva, che è un aspetto importante che vedo che si sta perdendo per colpa di YouTube. Io sono vecchia scuola, e penso che si sta perdendo molto l’ascolto. Ricordo quando ero ragazzino, dovevo prendere il ˜, che per chi non lo sapesse, era il vinile formato piccolo, e ascoltarlo a 33, con il giradischi, in maniera da sentirlo al rallentatore per cercare di tirarmi giù le cose a orecchio, perché non esisteva nessuno che mi spiegasse certe cose. Neanche il maestro di chitarra!
Il mio primo maestro di chitarra non faceva altro che dirmi: "Studiati questa scala, quest'accordo". Io andavo lì, gli facevo sentire Randy Rhoads, il chitarrista di Ozzy Osbourne, e gli dicevo: "Ma io voglio fare questa cosa". E lui mi diceva: "Affari tuoi, trova il modo di farla, io non te la faccio fare". E quindi ti dovevi un po' organizzare per conto tuo.
E questo sviluppa l’orecchio, anche sbagliando, eh… cioè magari mi tiravo giù la frase di Van Halen completamente sbagliata. Però qualcosa avevo ricevuto, e in quel momento stavo comunque allenando l'orecchio, e stavo cercando di capire su quale scala mi muovevo.
Invece oggi se io voglio fare l'assolo di tizio, apro YouTube, trovo il tutorial che mi dice tasto 5, tasto 7, tasto 6, e imparo a memoria quel movimento senza sapere perché. Che scala è stata usata? Che accordo c'è lì sotto in quel momento?
Quindi, ecco, tu hai ragione. Non si può chiedere a un ragazzo che inizia di preoccuparsi delle note target, però almeno di studiare in modo più consapevole.
Cioè, se mi studio l'assolo, anche la cosa più semplice del mondo, devo capire perché il chitarrista è arrivato a fare quella scelta, tramite l'orecchio, in generale. E sì, ponendosi delle domande che io vedo che oggi pochi si pongono. Molti ragazzi si ritengono soddisfatti di aver suonato le note giuste... addirittura non di aver suonato le note giuste, ma di aver messo le dita sui tasti giusti!
Anche perché, come dicevo prima, se tu un re glielo fai prendere al settimo della terza corda, non va bene, perché il video di YouTube dice che invece era il dodicesimo della quarta, no? E quindi è proprio l’approccio sbagliato.
Io quello che cerco di dire ai miei allievi è: "Ok, guardati pure il video su YouTube, impara a memoria i numeretti, però poi studiati che accordi ci stanno lì sotto, suonali, e prova a capire perché quel chitarrista ha deciso che lì sotto c'era un re piuttosto che un do".
In ogni caso, per quanto noi possiamo teorizzare, è qualcosa che avviene nel tempo. Eh, nel senso, ci vuole tempo anche per porsi queste domande. Forse è giusto. Io devo dire che tutto sommato, nonostante tutti questi bei discorsi, quando mi trovo davanti il ragazzino di 13 anni, gli dico: "Metti il dito al tasto 5, metti il dito al tasto 7, e non ti porre domande", perché al ragazzino di 13 anni non gli puoi dire... cerco di fargli fare un po' lo stesso percorso che ho fatto io.
Io a questa consapevolezza sulle note ci sono arrivato dopo, e quindi non trovo giusto tediare il povero ragazzino, costringendolo a fare qualcosa che io stesso, quando avevo l'età sua, non ho fatto.
Una cosa che suggerisco io per arrivare all’improvvisazione consapevole senza doper per forza arrivare allo studio del contrappunto e delle note, è di pensare alle posizioni degli accordi. Così uno non deve pensare al nome delle note target, ma le ritrova visualizzandole con le diteggiature.
Certo. Il più delle volte, quando sentiamo delle belle frasi di chitarra, se andiamo a vedere dietro c’è questo.
Io, come esempio, spesso uso "Still Got the Blues" di Gary Moore, che presenta un tema segue nota per nota gli accordi, e poi però, dato che Gary Moore veniva dal metal, presenta anche dei fraseggi che sono un po' l'unione tra i due mondi (dell’improvvisazione consapevole e dei lick di chitarra).
Hai toccato un tasto giusto. Una cosa chiave che molti sottovalutano è ascoltare la musica giusta: devi ascoltare cose che ti stimolano. Io, per esempio, ho sempre fatto differenza tra quello che ascolto come studio e quello che ascolto come ascoltatore, soltanto per gratificarmi nell’ascolto della musica.
Ci sono chitarristi che hanno tantissimo da insegnarci nel loro linguaggio, anche se poi tutto sommato non fanno il nostro genere di musica preferito. Come al contrario, ci sono chitarristi divertentissimi da ascoltare perché fanno una musica divertente e piacevole, ma poi c'è veramente poco da imparare.
Quindi sì, ascoltare tanta musica, che è una cosa che si sta perdendo un pochino.
A proposito dell'importanza di ascoltare cose giuste, in questo periodo stai ascoltando qualche nuovo chitarrista da consigliare?
Anche da questo punto di vista sono molto tradizionalista, e forse molti non saranno d'accordo con me, ma sono convinto che dopo Hendrix, Clapton, Blackmore, e Van Halen... insomma, non credo che nessuno abbia creato qualcosa. Forse Steve Vai, sì, ha creato uno stile. Ma lo ha portato talmente ai suoi altissimi livelli che trovo che imitare Steve sia veramente la cosa più kitch che si possa fare. Ma lui è un chitarrista che continuo ad amare e a stimare tantissimo; l'ho visto almeno sette volte dal vivo eccetera.
Però non è un chitarrista che consiglierei a chi vuole studiare la chitarra perché comunque sia lui è lui, e basta.
Così come il grandissimo Matteo Mancuso, che è veramente qualcosa di alieno ed eccezionale. Ma allo stesso tempo, e lo dice lui stesso se vi andate a vedere delle interviste, ha un modo di suonare che è tutto suo, che deriva dal fatto che da piccolo... io, tra l'altro, sono molto amico del padre Vincenzo che per me è stato un ispiratore e mi ha sempre dato dei consigli importantissimi nel mio percorso musicale, e so qual è la storia di Matteo.
Matteo è uno che ha cominciato a suonare cose che non gli piacevano e gli hanno fatto intraprendere il percorso classico, invece a lui non piaceva. Per questo poi ha sviluppato quella tecnica con le dita e nessuno si è mai messo lì a dirgli come si usava il plettro eccetera. Quindi lui stesso, se andate a vedere le interviste, dice che ha trovato questo suo modo assolutamente inventato di suonare che dà quei risultati. Ma lui stesso lo sconsiglia.
Cioè quel modo di suonare non è un percorso, ma sono quelle cose che o ti vengono spontanee, o ce l’hai nelle mani, oppure sono fini a sé stesse.
Secondo me, il fraintendimento di base quando si parla di lui è che tanti pensano che la sua qualità stia nella tecnica particolare, nel suonare con le dita, nell’approccio classico, quando invece la genialità è proprio una musicalità talmente innata, talmente esagerata che sarebbe come se Messi, invece di essere mancino, fosse stato destrimane: sarebbe stato un fenomeno ugualmente.
Sì, ma infatti Matteo ha un linguaggio strepitoso, non si può ridurre tutto a questo fatto delle dita della mano destra.
Quindi il consiglio che posso dare è studiatelo: ma studiate il suo linguaggio, non vi andate a impantanare in quel tipo di tecnica che, tra l'altro, non è neanche classica. L’impostazione non è quella della chitarra classica. Sì, probabilmente viene da lì, lui è stato stimolato nell'uso delle dita, ma poi l'impostazione che ha non è assolutamente quella della chitarra classica.
Semmai è un chitarrista che va apprezzato per il suo linguaggio ma soprattutto andrebbero studiati quelli che lui ha studiato. Quando ami un chitarrista non devi studiare lui, devi vedere cosa lo ha ispirato e cosa ha creato quel linguaggio. Se ti piace Slash, devi studiare Jimmy Page. E se ti piace Gilmour, devi studiare Hendrix.
So che sembra una cosa assurda ma proprio ieri, guardando un concerto di Gilmour, notavo quanto i suoi fraseggi siano proprio quelli di Jimi Hendrix; il suo linguaggio viene da lì. Poi il contesto musicale è completamente diverso, per carità, ha sviluppato uno stile suo, ma quando ti piace un chitarrista devi studiare quelli da cui lui ha studiato.
Satriani, se non ci fosse stato Jeff Beck, probabilmente non avrebbe sviluppato quel modo di suonare. Quindi ecco, Matteo è senz'altro un discorso a parte. Tolto lui, credo che bisogna andare indietro nel tempo per studiare seriamente lo strumento e cercare di sviluppare il proprio linguaggio, e tirar fuori la propria sensibilità senza fare gli imitatori.
Per concludere, mi interessa il tuo approccio alla strumentazione. Vedo tantissimi chitarristi che spostano l'interesse troppo sul lato della strumentazione, a mio modo di vedere, tralasciando la parte più suonata. Però la chitarra elettrica è indubbiamente uno strumento per cui la strumentazione è un aspetto importante…
Hai colto nel segno, era un argomento che speravo tu tirassi fuori, perché ho parecchio da dire a riguardo e mi attirerò le antipatie di tanti, sicuramente.
Allora, io sono vecchia scuola: per me la chitarra è un pezzo di legno e sei corde. Penso che, come ci insegna il buon Stevie Ray, se tu entri con il jack dentro un Fender Twin hai tutto un mondo da poter esplorare senza bisogno di mille effetti e mille cose che, secondo me, il più delle volte servono a nascondere delle lacune interpretative. Perché ovviamente se io suono con un suono super effettato, con una distorsione esasperata, a quel punto avere sotto le mani una Ibanez da €4000 o una Tamaki da €20 è la stessa cosa, il suono che esce è uguale.
Però io stesso, nonostante sia contrario al digitale, poi lo uso, perché ovviamente se suoni dentro casa non è che puoi aspettare che il vicino chiami i vigili.
Quindi rispetto al digitale continui a rimanere scettico nonostante i progressi degli ultimi tempi?
Non scettico, proprio contrario.
Ancora continuo a pensare che il vecchio amplificatore valvolare è qualcosa di insostituibile e continuo a pensare che i single coil siano i pickup più espressivi che esistono perché sono più dinamici. Poi ce l'ho anche una chitarra con gli humbucker, la uso per certe cose eccetera, però la differenza la sento: l'espressività che ti dà il single coil è maggiore. Però, ecco, dicevo, quando entro con il jack nella scheda audio e metto un plugin, se io poi ci metto una chitarra fatta da liutaio e pagata un occhio della testa oppure una chitarrina economica, una Fender Squier, alla fine il suono che esce è esattamente lo stesso. Mentre non è così se entro dentro un amplificatore direttamente.
Gli effetti vanno usati, per carità, certi generi musicali senza effetti non funzionano. Un disco dei Cure, se togli i reverberi, non hai più quel suono. Però in fase di studio andrebbero proprio eliminati, perché dobbiamo noi abituarci a tirar fuori i suoni dalle nostre mani, che è anche una frase abbastanza sentita e ormai sembra quasi vuota e priva di significato, ma invece è questo un altro dei grandi insegnamenti che mi ha dato la chitarra classica.
Può suonare come una frase fatta, però se uno ne capisce il senso non lo è.
Anche secondo me.
Forse è una visione un po' metafisica, però il suono, come diceva Zappa, viene proprio dalla testa.
Non so se ti è mai capitato di leggere l'intervista a Steve Vai in cui parla del suo primo incontro con Zappa. Steve era un ragazzino e gli disse: "Ma come faccio ad avere un bel suono?" Perché aveva un suono orribile all'inizio. E Zappa gli disse: "Se il suono ce l'hai in testa, tira fuori quello che hai in testa. Non è che devi usare quella chitarra o quell'amplificatore, se tu lo pensi quel suono esce fuori".
A proposito di questo, qualche mese fa ho avuto la fortuna di vedere John Mayer a Dublino in un concerto totalmente acustico, e ho sentito il suono di chitarra acustica più brutto che io abbia mai sentito in vita mia. Veramente orribile. E ho detto: però la musica era stupenda.
Riusciva comunque a fare poesia con quella chitarra e dentro di me ho pensato: John Mayer non penso che non abbia i soldi per comprare l'ultimo pickup della Fishman o chissà quale compressore fantasmagorico.
Probabilmente è una scelta: lui ha deciso che, siccome è convinto di quello che sta facendo sullo strumento, sa che quando mette le mani sullo strumento esce fuori la sua musica. Probabilmente non gli importa niente di stare a cercare il pelo nell'uovo. Non posso credere che lui abbia fatto l'errore di regolare male il suono, né lui né il suo staff.
Sono convinto che sia una scelta. Probabilmente ha pensato: "Mi interessa salire sul palco e dare quello che io so dare, chi se ne frega se il suono è plasticoso e si sente la diretta del piezo elettrico sotto il ponte".
Ultima cosa: come chitarra sei sempre fedele alla Stratocaster?
Sì, oltre alla Stratocaster ho una Telecaster, una 335 e una bellissima Gretsch semiacustica. Ma se dovessi dire qual è il mio strumento, è la Stratocaster, poi le altre chitarre mi servono perché quando registri se fai tutto con la stessa chitarra non riesci neanche a sovrapporre le parti, c'è bisogno di suoni diversi.
Perfetto. Penso che è stata una bellissima chiacchierata, abbiamo toccato tanti temi e ti ringrazio tantissimo. Potrei continuare qui per ore con mille altre domande, ma meglio concludere. Grazie mille e alla prossima!
A presto!